Isabella Morra è stata una poetessa italiana del XVI secolo. Nata intorno al 1520 da una nobile famiglia a Valsinni, visse una vita di isolamento forzato a causa delle rigide regole familiari e della società patriarcale dell’epoca.
Le sue poesie, scritte in un contesto di solitudine e prigionia, esprimono sentimenti di angoscia, disperazione e il desiderio di libertà. Isabella trovò un rifugio nella scrittura, ma la sua vita si concluse tragicamente: fu assassinata dai suoi stessi fratelli, probabilmente per sospetti di una relazione con un uomo di una famiglia rivale.
La sua opera, sebbene limitata per quantità, è apprezzata per la profondità emotiva e la forza delle immagini, rendendo Isabella Morra una figura emblematica della letteratura rinascimentale italiana.
La Vita
Isabella Morra nasce a Favale (odierna Valsinni) nel 1520.
“Femminista ante litteram”, è indicata come la voce più originale e autentica della lirica cinquecentesca, secondo il critico Benedetto Croce che ne riscoprì la storia.
Dacia Maraini, che le ha dedicato un’opera teatrale, la considera l’emblema della donna che, attraverso la cultura, cerca di affermare il proprio diritto alla libertà.
Terzogenita di 8 figli, Isabella vive la sua intera e breve vita nel castello arroccato sulla collina, nel cupo e profondo sud della Basilicata, negli anni in cui le grandi potenze di Francia e Spagna si contendevano l’egemonia del mondo e del Regno di Napoli.
Nella contesa il barone Morra si schiera con l’esercito francese contro Carlo V e persa la guerra, preparate in tutta fretta le valigie, è costretto all’esilio. In Francia, dove giungerà con il figlio Scipione, sarà nominato regio consigliere e poeta di corte mentre il figlio diventerà segretario della Regina Caterina De Medici. Non torneranno mai più in patria.
Isabella rimane nel feudo di Favale. Il vecchio e tetro castello normanno diventa sua prigione e tomba. La valle verdeggiante, che vede dagli spalti del castello, diventa una “valle inferna”, circondata solo da “ruinati sassi”, attraversata da un “fiume alpestre” e abitata da “gente irrazionale e priva di ingegno”, come scrive nelle sue poesie.
Anima delicata e gentile, formatasi nella lettura dei classici e del Petrarca, Isabella vede inevitabilmente sfiorire la sua beltà e la sua giovinezza sempre chiusa nella realtà del piccolo feudo, prigioniera del tempo che vive.
Piange della sua condizione di donna e di meridionale; in quanto donna non può godere di determinati privilegi riservati solo agli uomini, in quanto meridionale vive una realtà contadina, tra gente di una mentalità “chiusa e ristretta”, in una terra lontana chilometri da Napoli, capitale del regno e della cultura.
Unico conforto in tanta solitudine: la poesia!
Alla poesia affida i suoi più riposti pensieri e segreti e alla poesia confida le sue ansie e i suoi tormenti: l’odio per la terra natìa e l’amore profondo per il padre esule in terra straniera.
Dall“Alto Monte” Coppolo ( 900 m) “onde si scorge il mare”, scruta in attesa di veder comparire una nave con a bordo l’amato padre, ma ogni giorno è inevitabile il triste ritorno alla realtà.
Isabella, se da un lato proietta sui luoghi aspri e selvaggi che la circondano la sua condizione psicologica di infelicità e di disperazione, dall’altro lato, trova nella natura stessa il suo confidente e amico: nel fiume Sinni.
Al Sinni dedica alcune tra le sue poesie più belle. Commovente il verso “m’accrebber si mentre fu viva, no gli occhi no, ma i fiumi d’Isabella”, le acque del fiume, scrive, sono accresciute dalle sue lacrime.
Vede come causa del suo dolore la Fortuna, non più amica e benevola, non più madre amorevole ma maligna e matrigna, che come un ragno tesse la tela del suo destino, di un destino che le riserva una vita infelice alla quale è preferibile la morte. Scrive in un suo celebre verso:
“… (Fortunja) qui non provo di donna lo stato
per te, che posta m’hai in sì ria sorte
che dolce vita mi sarìa la morte”
A questa sua triste condizione di solitudine e disperazione seguì più tardi la rassegnazione cristiana.
Fu proprio nel bel mezzo della ritrovata pace religiosa che all’orizzonte della giovane donna, appare la figura fascinosa del poeta Diego Sandoval De Castro, sposato con donna Antonia Caracciolo, padre di tre figli, barone delle terre di Bollita (odierna Nova Siri).
Tra i due ci fu una semplice amicizia, una corrispondenza letteraria, o forse amore? Questo non lo sapremo mai!
I critici parlano di un innocente scambio di lettere, mentre i maligni di uno scambio di amorosi sensi, di una relazione sentimentale. Questa diceria decreta la sua condanna a morte. Decio, Fabio e Cesare, appresa la notizia di questa relazione, decidono di lavare con il sangue l’onta del disonore. Diego Sandoval era sposato ma, cosa ancora più grave, era uno spagnolo, mentre loro erano filofrancesi. C’era l’odio verso lo spagnolo vincitore e padrone del Regno di Napoli.
Nell’autunno del 1545 compiono l’atroce delitto. Uccidono brutalmente Torquato, il pedagogo della sorella, strangolandolo ai piedi del castello, mentre rientrava da Bollita con in mano una lettera di Diego per Isabella. Raggiungono Isabella nel castello e la uccidono (presumibilmente nella sala delle armi) con colpi di pugnale.
Canta per le strade del borgo il menestrello di Favale: “Isabella morì con le sue disperazioni/ lasciandoci in memoria le canzoni/ il dolce fiore mai sbocciato sempre in nome del peccato/ e della civiltà dei fratelli che l’affidano ai loro coltelli”.
Nel 1545, nel bosco di Noia (odierna Noepoli) tendono un agguato a Diego che troverà la morte ucciso con tre colpi di archibugio.
Scrive Alonso Basurto, governatore della Provincia di Basilicata che Diego trovò la morte per aver festeggiato la Hermana (germana) di un barone. Nessun accenno all’infelice Isabella!
Il corpo di Isabella nessuno lo ha mai ritrovato, questo evento ha dato vita nel corso degli anni e secondo le dicerie tramandate oralmente dagli antenati, al mito del fantasma.
Lo spirito di Isabella aleggia ancora tra le stanze del castello e le strade del borgo medievale.
La Poesia
Gli scritti di Isabella furono scoperti dagli ufficiali del viceré di Napoli e messi agli atti durante l’indagine che seguì l’uccisione di Diego Sandoval de Castro, allorché il castello di Valsinni fu perquisito. Nonostante il corpus estremamente esiguo a noi pervenuto (dieci sonetti e tre canzoni), la poesia di Isabella è considerata una delle più intense e toccanti della lirica cinquecentesca. Molte sono state le letture del suo canzoniere in chiave meramente femminista (tenuto conto del limitato numero di donne presenti nella letteratura italiana del tempo), specialmente in ambito statunitense, senza che tenessero in sufficiente considerazione il retroterra culturale e storico dell’epoca. Non esistendo un’edizione delle liriche curata dalla poetessa, non si conosce con certezza l’ordine temporale dato alle sue opere e i tredici componimenti del canzoniere, considerato «un’autentica autobiografia in versi», sono stati suddivisi in due stagioni poetiche: la prima segnata dal malessere e dalla speranza di evasione, la seconda (comprendente l’ultimo sonetto e le tre canzoni) dalla rassegnazione e dal conforto nella religione.
Sonetti
- I fieri assalti di crudel fortuna
- Sacra Giunone, se i volgari cuori
- D’un alto monte onde si scorge il mare
- Quanto pregiar ti puoi, Siri mio amato
- Non solo il ciel vi fu largo e cortese
- Fortuna che sollevi in alto stato
- Ecco ch’una altra volta, o valle inferna
- Torbido Siri, del mio mal superbo
- Se alla propinqua speme nuovo impaccio
- Scrissi con stile amaro, aspro e dolente
Canzoni
- Poscia ch’al bel desir troncate hai l’ale
- Signor, che insino a qui, tua gran mercede
- Quel che gli giorni a dietro
Le rime sono disponibili al seguente link: https://it.wikisource.org/wiki/Rime_(Morra)